Negli ultimi giorni si dibatte animosamente in ambito politico e culturale se narrare con parole e immagini la grave malattia di un bimbo sia raffigurazione strumentale del dolore, morbosità oppure racconto del presente e interesse alla vita. Tralasciando considerazioni e implicazioni di carattere politico perché non credo che esistano al mondo persone talmente misere da porre la sofferenza di un bimbo sulla bilancia dei voti, vi dico come la penso in seguito ad una tragedia vissuta in prima persona . Più di 10 anni fa ho perso una parte del mio cuore a causa dell’avidità umana, sostanzialmente per la produzione di qualche pacco di pasta in più . Quel giorno, solo per un puro caso, non accesi Internet e non guardai la tv, altrimenti avrei saputo dai media la tragedia che si era abbattuta sulla mia famiglia, molto prima che i poliziotti ci comunicassero la perdita per un macchinario difettoso che già aveva procurato diversi ferimenti . “Dovere di cronaca”, risponderà qualcuno. Certo, è giusto informare, ma è indegno spiattellare la morte di un individuo prima che la famiglia ne sia al corrente. Da quel giorno diverse emittenti nazionali, sappiamo quanto noi italiani amiamo le cronache di tragedie annunciate, si occuparono del caso e, ogni volta che il suo nome, la sua vicenda e una sua foto apparivano sugli schermi, ricevevo due pugnalate, una al cuore e l’altra allo stomaco. Il fondo fu toccato qualche mese dopo il lutto quando fui invitato in un talkshow pomeridiano per illustrare agli spettatori come avessi affrontato e superato questo dramma. E’ superfluo precisare che li ho mandati a cagare, non spettacolarizzo il mio dolore. Da allora, ho fatto ancor più mio il detto :”Non fare agli altri , ciò che non vuoi che facciano a te stesso”.