In questo particolare momento storico del nostro Paese, segnato da continue grida di pericoli per la democrazia e da un profondo mutamento del nostro assetto costituzionale, reputo che l’intervento qui di seguito di Raffaele Delle Curti, offra interessanti spunti di riflessione.
“La parola democrazia porta con sé, nel suo bagaglio di storia, la sventura di avere una fattezza tanto bella; e si sa la ragazza più bella del paese è sulla bocca di tutti.
Tutti la rincorrono, tutti l’apprezzano, tutti la vogliono .
Tutti ne bramano il possesso per esibirla nel dì di festa manco fosse un vessillo o un gagliardetto, simbolo di conquiste, ma ahimè, anzi “ahinoi”, pochi la amano.
Ogni qualvolta abbiamo bisogno di un lustrino, di una coccarda per imbandire i nostri discorsi, le nostre ricostruzioni ardite ricorriamo ad essa, come un cucciolo impaurito rincorre la “sottana” della madre.
Il problema principe è che attraverso questo costume, uso-abuso, si rischia di mandare messaggi poco appropriati.
Si rischia, seriamente, di confondere il concetto di democrazia con quello di demagogia e il procedimento democratico con un procedimento formalmente e apparentemente democratico; ovvero si corre il pericolo di esaltare ciò che dal passato è stato generato e che da sempre si suole accostare alla parola democrazia.
Un esempio assai evidente, o per meglio dire che a noi appare evidente, è stata la Legge, soprattutto nell’accezione che la Rivoluzione Francese ha avuto la “bontà” di tramandarci.
Essa è stata esaltata a tal punto, anche e soprattutto come simbolo della democrazia, da essere posta su di un piedistallo dorato; essa ha teso in maniera più che proporzionale a ripudiare la sua natura di “essere emanazione del popolo” a favore di un’entità rappresentativa solo ed esclusivamente dei rappresentanti del popolo.
Onde evitare di urtare la suscettibilità di qualche romantico rivoluzionario, chiariamo sin da subito che nel presente scritto non si sta mettendo in discussione il valore storico della Rivoluzione Francese, bensì il ruolo che quest’ultima ha conferito alla legge e quell’immagine salvifica sicuramente eccessiva che della stessa veniva fornita.
Certo è che, l’avvento delle prime codificazioni, le cd. Grandi Leggi, ha rappresentato una svolta epocale nel mondo del diritto, perché si è tentato di combattere contro quell’uomo nero che andava sotto il nome di particolarismo giuridico degli anni addietro, quello delle grandi ingiustizie, quello delle diseguaglianze (Per particolarismo giuridico si intende: “la mancanza di unitarietà e di coerenza dell’insieme delle leggi vigenti in una data sfera spazio-temporale, individuata in seguito ad un giudizio di valore secondo il quale in quella stessa sfera vi dovrebbe essere, o ci si aspetterebbe vi fosse, unità e coerenza di leggi”. G. Tarello).
Difatti l’insigne giurista Portalis, presidente della commissione per la redazione del Code Civil Napoleonico del 1804, nella sessione del ’28 ventoso, anno XII, si pronunciava così:
“La disposizione più essenziale del progetto che vi si propone è quella con la quale si dichiara che dal giorno in cui le nuove leggi civili da voi sanzionate diverranno obbligatorie, le leggi romane, le ordinanze, le consuetudini generali e locali, gli statuti ed i regolamenti, cesseranno di avere la forza di leggi generali e particolari nelle materie che formano oggetto di quelle medesime leggi che compongono il presente codice. L’ultima disposizione del progetto, cioè quella che abroga le leggi anteriori ci ricorda ciò che eravamo e ciò che siamo”.
Questa breve citazione denota la sua importanza soprattutto se si pone l’accento sul ruolo che si riconosceva alle “nuove leggi”; esse avrebbero dovuto eliminare le tante regole esistenti, che divergevano in relazione alle differenti categorie di persone, cittadini della Francia e non solo, con delle regole valevoli per tutti.
Lo slogan dalla caratura politica che circolava nelle strade, anche in quelle più disagiate e dissestate, individuava nella legge quella medicina, valevole allora e per sempre, che avrebbe reso il popolo sovrano e gli uomini liberi ed euguali.
La fallacia però era insita dietro l’angolo e lo stesso Portalis ne era convinto; egli era ben consapevole che la legge da sola avrebbe sì potuto rivoluzionare l’intero panorama giuridico ma non sarebbe stata in grado di incidere autonomamente sulla storia della umana specie purificando tutto ciò che vi era da purificare.
Portalis, da attento osservatore, comprese ben presto l’idea di legge che la Rivoluzione e l’illuminismo avevano inculcato nei giovani rivoluzionari.
L’opinione che a lui non andava “a genio”, può essere così rappresentata: “La legge dovrà Tutto semplificare, Tutto prevedere”.
Che cosa significa tutto semplificare?
Tutto semplificare indica quell’attività di riduzione e semplificazione della disciplina esistente attraverso la sostituzione della stessa con poche norme fondamentali per materia in modo tale da evitare il proliferare di leggi inutili.
Già questa prima parte della sbandierata proporzione mostra in maniera palese le sue problematiche: si credeva davvero che la Francia, una nazione così complessa, si potesse accontentare di una disciplina sommaria o meglio semplificata e riassunta?
Ma l’istesso Portalis sapeva bene che tutto ciò appariva improbabile e che non poteva realmente rappresentare l’obbiettivo della commissione da lui presieduta, tant’è che così’ si esprimeva: “Negli Stati dispotici dove il principe è il proprietario di tutto il territorio vi sono più giudici e carnefici che leggi: ma ovunque i cittadini hanno beni da conservare e difendere si richiede necessariamente un certo numero di leggi per far fronte a tutto”.
Tutto prevedere, invece, rappresenta una sorta di imprescindibile forza di cui la legge sarebbe dotata, una potenza innata capace di regolare tutto e di rendere pacifica la difficile convivenza (Anche in questo caso Portalis, mostrando forti dubbi sul ruolo che le era stato affidato, si pronunciava così: “Il legislatore non può considerare ciò che è particolare, non può, perché non ne sarebbe in grado, di sanzionare l’intiero agire umano. Può, invece, limitarsi ad elaborare principi fecondi di conseguenze e non di discendere nei particolari delle questioni che possono nascere su ciascuna materia. L’officio della legge è di determinare con il mezzo di grandi concetti le massime generali del diritto. Spetta al magistrato e al giure consulto, istruiti dello spirito generale della legge di dirigerne l’applicazione”).
La legge, secondo i suoi sostenitori, con un buon cassino e un pezzo di gesso poco appuntito, avrebbe cancellato tutta la confusione del passato e garantito ordine e beltà.
Ora al di là delle reali potenzialità del “prevedere e semplificare”, è necessario domandarsi se di fatto la legge possa assurgere effettivamente a spada secorale posto a garanzia dell’uomo, o meglio della persona, e se sia effettivamente bastevole per i secoli avvenire.
Questo lo faremo non attraverso un’indagine storico-empirica ma puramente logico-razionale, attraverso una semplice astrazione che ponga in discussione la legge e il concetto stesso di democrazia rappresentativa che in essa è insito.
Per farlo ricorreremo al metodo dialogico tipico della scrittura platonica.
“La legge da chi viene emanata?”
La risposta è molto semplice quanto intuitiva:
“dal popolo o per meglio dire dai rappresentanti del popolo”
Ebbene a questo punto sorge spontaneo il seguente quesito:
“chi è il popolo? ”
Anche in questo caso spesso la risposta appare ovvia, perché influenzata dal retaggio culturale di noi altri:
“Il popolo siamo noi”.
Poniamoci, però, la domanda all’inverso, provando a sfuggire alla tradizione inculcataci.
“Chi sono questi noi che rappresentano il popolo?”
“Sono i cittadini? Coloro che hanno votato i rappresentanti eletti? O meglio ancora la maggioranza? Ovvero anche la minoranza?”
“Chi è il popolo e di chi si compone?”
Questa parola così altisonante rischia di diventare, e in alcuni momenti della storia sembra esserlo diventata, un feticcio, un fantoccio che veniva richiamato per giustificare un dato modo di agire.
Un “emblema”, anch’esso, che diluiva la singolarità della persona, la sua unicità in una barbara unità, dove la prospettiva visuale lasciava che l’ombra cadesse sui singoli, perché l’insieme appariva più bello, addirittura finanche più giusto.
L’io singolare si trasformava in un noi evidentemente plurale.
Queste parole, che non vogliono essere delle mere costruzioni fantasiose di un “intellettuale da strapazzo”, hanno una portata pratica se si pensa che una impostazione si fatta potrebbe portarci ad affermare:
“Noi abbiamo deciso e in quanto noi abbiamo deciso quel che è deciso è giusto!”.
Soffermiamoci un attimo sulla pericolosità di quanto detto.
Così facendo, o meglio così ragionando, attraverso la procedura democratica posso perpetrare delle ingiustizie che non potranno essere biasimate in quanto protette dalla corazza della formale rappresentanza.
Tale fenomeno appare assolutamente plausibile soprattutto allorquando, per dirlo con le parole del compianto costituzionalista Vezio Crisafulli, tra “paese reale e paese legale viene a crearsi una discrasia”.
Ma vi è di più; anche quando questo distacco non sia così evidente, almeno ictu oculi e comunque non sia palesato alla massa, tali ingiustizie potrebbero essere giustificate facendo ricorso al feticcio del popolo e al feticcio del noi, di cui prima parlavamo.
Rendendo ancora più semplice il nostro ragionamento, sperando di non banalizzarlo, ipotizziamo un dialogo tra un laico (per laico intendiamo una persona che non partecipi al processo decisionale, per dir così un rappresentato) e una figura istituzionale (ovvero una persona che abbia un incarico istituzionale e che materialmente abbia contribuito ad adottare la decisione ingiusta, il rappresentante) avente ad oggetto la decisione ingiusta.
Domanda del laico:
“Chi ha adottato la decisione ingiusta?”
La risposta istituzionale:
“Noi abbiamo deciso!”.
Ribatte il laico:
“Questo è chiaro, ma il problema è chi siamo noi?”
La figura istituzionale:
“Il popolo!”
Il laico:
“Si questo sarà anche vero, ma chi è il popolo?”
La figura istituzionale:
“Il popolo siamo noi”
Come si nota dal dialogo presente, di fatto si viene a creare un circuito chiuso, o cortocircuito, nel quale il popolo e il noi vengono ad essere i poli conclusivi del procedimento formalmente democratico.
Così facendo, attraverso il classico “gioco delle tre carte”, ossia una verifica autoreferenziale, in pratica una non verifica, si può realizzare qualsiasi tipo di nefandezza.
Non c’è una forma di contestazione dal punto di vista logico- formale.
La forma è salva ma la sostanza se non è mancante del tutto, a noi appare assai farraginosa.
Tale costrutto sembra essere assimilabile pari pari a quanto si è venuto ad affermare con la concezione della democrazia e della superpotenza della legge nella Rivoluzione Francese e successivamente con il retaggio di questa opera umana lastricata d’oro.
Si pensi alla volontà generale di Rosseau, quel tipo di volontà che si esprimeva nella fonte più importante dell’allora sistema normativo, la quale rischiava di tutelare esclusivamente la maggioranza a tutto svantaggio della minoranza.
Di quest’ultima e delle discriminazione che ha subito potremo fare innumerevoli esempi.
Ne facciamo uno per tutti: le leggi razziali; con un procedimento democratico si sospendevano a tempo indeterminato i diritti e le libertà fondamentali di tutti coloro che appartenevano alla “razza ebraica”.
Al di là della mera critica politica o di osservazioni storiche, che esulano da questo lavoro, vorremmo porre l’accento sul fatto che con Legge si realizzò lo scempio della dignità umana di un gruppo di persone, di una minoranza presente sul territorio.
La legge che doveva rendere tutti liberi ed euguali, l’esempio del procedimento democratico, aveva tradito la sua funzione, la sua stella polare, la sua ragion d’essere.
La volontà del popolo, la volontà generale, intesa nell’accezione di cui prima ed espressa per il tramite dei rappresentanti, aveva realizzato quel prodotto che hanno inondato di inchiostro i nostri libri di storia.
Tutto ciò ci permette di constatare che la Legge non era e non è infallibile; anzi essa ha prodotto delle gravi calamità tanto da far gridare allo scandalo, tanto da muovere le coscienze di milioni di persone, anche perché la fiducia in essa era talmente tanta che lo scotto fu troppo forte.
Il mito era caduto, l’eroe abbattuto.
Ella non bastava più;
la Legge non basta più, la sua presenza è necessaria, così come il procedimento democratico che ne è la composizione prodromica, ma da sola non è sufficiente a salvaguardare quei diritti che sono connaturati alla persona, quei diritti che vengono definiti fondamentali.
Su questo dato si è discusso in seguito al fallimento degli Stati moderni di inizio novecento tanto da spingere alla creazione di uno strumento che stazione al di sopra della legge, e che prende il nome di Costituzione.
Quella Carta fondamentale che oggi si tende a dimenticare con eccessiva naturalezza, ovvero si arriva addirittura ad offenderla definendola “vecchia” senza sapere che di essa è stato così detto: “tanto è scritta bene che può essere paragonata ad spugna in grado di assorbire le istanze sociali della moderna realtà”.
Da molte sponde, ancora oggi, si richiama a ruolo di garanzia suprema la Legge, dimenticando che la nostra prima ed ultima arma di battaglia contro le violenze, provenienti da chicchessia, finanche dal nostro stesso Stato, è proprio quel Documento che nel 1947 venne alla luce per il mezzo di uomini e donne dalla caratura significativa.
Lì c’è tutto ed anche più; è il luogo dove è richiesto essere persona, con tutti i diritti che a questa parola conseguono, ed è da lì che bisogna ripartire
Ma questa è un’altra storia, anzi è il capitolo successivo della presente”.
Raffaele Delle Curti
Legale specializzato in diritto penale
Presidente Nazionale Associazione Urbe
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